giovedì 26 aprile 2012

Processo per Due Vite.




Notte fonda.
Tutta notte. 
La prima notte senza riposo.

Se penso indietro, in un tempo che non ha tempo, comprendo che il “processo a nudo” di stasera ha forzato la fine.
Forse giusta, forse no, forse quello che sarebbe stato comunque, ma l’ha forzata.
Non era negli altri che avrebbero potuto cercare risposte.

Ma la sua di ieri notte, così difesa a spada tratta ancora stasera, ancora da lei e dai “giudici supremi” che hanno scelto, l’ha trovato solo.
Ancora solo.
Lucido e controverso, ma solo, sul banco degli imputati.
Non so se i due “maestri” che avevano scelto hanno compreso qualcosa, ma li hanno scelti loro e  non avrebbero che potuto accettarne il verdetto.
Cosa era poi lo scandalo?
Quale la tragica imputazione?
Il suo delitto?
Quei vent’anni che potevano fare di lui un padre?
O lo scandalo di un vero amore imprevisto?
Insostenibile agli occhi e alle menti di chi l’amore non l’aveva mai avuto?
Perché sul banco degli imputati era solo.
Solo e nudo.
Pronto per un verdetto che ha visto lei ignava protagonista.
Non al suo fianco.
Ma in una platea sguarnita.
Deserta se non per la sua presenza.
Come se quell’amore pronto al macello del raziocinio l’avessi inventato lui da solo.
Generato e vissuto da solo.
Solo suo, nella sua solitudine.
Forzare la fine per l’insostenibilità della verità.
Era fredda, gelida quella seduta dedicata al condannato.
Era fredda ancora di più nel contemplare la sua solitaria presenza nella platea.
Si aspettava di averla al fianco.
Non a difendere ma a sostenere il loro comune tremito almeno.
Di quel processo “a nudo”.
Deciso insieme, vissuto da solo.

Era difficile prendere una decisione.
Avevano scelto quella di un processo.
Scegliendone i giudici.
Ognuno il suo.
Quello di lei, donna, quello di lui,uomo, sostanzialmente opposti, sostanzialmente uguali.
Giusti, sbagliati?
Direi giusti nella media, sbagliati per l’editto, forse per l’incarico.
Sbagliati per lui, quantomeno, che si è presentato nudo, al processo.
Giusti nella media, sbagliati nella specifica materia, ancora una volta.
Perché è sbagliato affidarsi ed affidare una decisione a chi non conosce.
Dov’era l’esperto di “loro”?
Avrebbero dovuto proseguire insieme e basta ,forse avrebbero dovuto, alla fine, avere il coraggio, la pazienza, la follia ….. o la semplice ragione di andare fino in fondo a quel tunnel.
Una cosa insieme l’hanno fatta: hanno sbagliato per quel processo.
Lui forse molto più di lei.
Ma i giudici, per me che ho presenziato come unico ufficiale, non potrò mai dimenticarli.


I GIUDICI


Quello di lui è un uomo nuovo e vecchio, vecchio dentro intendo, pratico di “pratica”.
Un uomo.
La sua proposizione era quella di specchiarsi in lui, tendenzialmente al contrario, non necessariamente, ma tendenzialmente……nessuno al mondo, in realtà,avrebbe mai potuto convincerlo, nemmeno per “presunta” superiorità, di ciò che non era.
Avrebbe dovuto confrontarsi, comunque, con le sue tante vite, tante persone, tante verità inseguite e trovate, tanto, tanto troppo.
Cinquant’anni circa, il suo giudice, conoscitore di vite, di uomini, “praticamente” di molte vite, forse non del “vivere”.

Quello di lei è una donna nuova e vecchia, vecchia dentro intendo.
Una donna.
Non so cosa si aspettavi da lei.
L’aveva scelta lei, non mi è dato di sapere.
Buona persona, comunque, ventisette anni di sofferenze ed un futuro pieno di speranze.
Educatrice presso un orfanotrofio di una grande città.
Sua convivente.


LA SENTENZA


Unanime, gelida, razionale, logica, pratica, inattaccabile soprattutto perché sostenuta anche da lei che al processo si era presentata ben vestita e in platea, non al suo fianco.
Quindi vera, si presume .........
Lui, per la prima volta nella vita, nudo, tremante, indifeso, senza controllo della situazione, senza forzare controlli.

Busta 1 : la GIUSTA DISTANZA!
Busta 2 : la GIUSTA DISTANZA!
Busta 3 (dalla platea) : la GIUSTA DISTANZA!

No era pronto per l’unanimità, sperava in lei, ma sperava e basta, sperava che qualcosa la  riportasse alla verità del sentire, a quella verità che avevano vissuto tutti i giorni, tutte le notti, quella verità che non si era mai fermata davanti alle parole.
Il sangue è sgorgato copioso ma, al dolore, lui era preparato.
Non si è neppure difeso, non avevo preparato alcuna difesa, l’avesse fatto temo non si sarebbe difeso comunque: nudità e sangue erano nell’aria.
Perché poi lei non hai dormito, a proposito?
Per il solito, consueto dispiacere?
Per il male che aveva ricevuto lui, o per il presunto bene che aspettava lei?

La “giusta distanza” come sentenza non mi è parsa neppure molto azzeccata.
Da unico ufficiale presente.
L’ho trovata poco nobile per la loro nobiltà, aspettavo altro, l’originalità di un editto che potesse almeno far storia, onorando quella storia.
Da unico ufficiale presente  l’ho trovata solo mediocre, cattiva e ignorante.
Perché?
Perché “la giusta distanza” non ha misura, perché nessuno saprebbe stabilirla, perché, nel migliore dei casi vuole dire distante e basta.
Nel peggiore, è ancora peggio: prendi il peggio in cambio del tuo meglio, nel caso esso possa servire secondo la discrezione di quanto, quando e come del tuo creditore.
Sei debitore verso te stesso, se non lo fai.

Al meglio di lui nessuno ha nemmeno pensato, e anche solo come ufficiale navigato quanto impassibile, mi bastava pensasse qualcuno.
Mi bastava ci pensassi lei.
Al loro comune bene.
Ma non è accaduto.
Il preteso e convinto bene di lei era un altro, era un bene che prevedeva solo previsioni.
Il tipico bene del mondo degli uomini.

Perché il processo allora, mi sono chiesto?
Il suo bene, il suo, almeno, punto di vista a riguardo del bene, mi è parso fosse di secondo ordine.
Infatti, di fronte al tema l’editto dei giudici fu unanime: “il fatto non sussiste”.
Ma adesso toccava a me.

Imputato alzatevi!
La giuria, i giudici hanno sentenziato:


LA GIUSTA DISTANZA ….. A VITA!!!!


Vi prego piagnucolò quel pover’uomo.
Vi prego signori giudici.
Signora inesistente giuria.
Non sia già ergastolo allora ma la morte.
Ma tutti lucidi e convinti, anche lei ……. dalla platea degli ignavi.
Tutti, tranne me, che non riuscivo ad ignorare le lacrime disperate di quell’uomo.
Tutti, in uno strano sinistro coro:

LA GIUSTA DISTANZA ….. A VITA.

Il martelletto ha schioccato un colpo secco, mi è rimbombato dentro, la folla assente ha applaudito ed applaudiva mentre uscivo anch’io tremante, ferito, sanguinante, umiliato ……. sorreggendo allo stesso modo tremante, ferita, sanguinante e umiliata quell’anima disperata.

Mentre lei si complimentava con il giudice di lui, illudendosi di essere libera, finalmente, serena …….
Il giudice di lei sbirciava compiaciuta la sconfitta di quell’uomo.
Contemplando, raggiante la sua vittoria, i suoi schemi avevano funzionato, implacabili, perfetti:
la giustizia dell’”uomo scimmia” aveva vinto ancora una volta.

La vita, la sua sentenza, l’ha decretò tanto, tanto tempo dopo ……. al solito.


PROLOGO AL CONTRARIO.

Aveva inquietato quella telefonata durante la cena prima del processo ……. riportando da là terrestri segnali telecomandati…..
L’aveva inquietato vederla tentare il vomito, mentre la tensione sul suo corpo le spezzava i muscoli ……..
Prese la mano calda di lui permettendo di appoggiarsi sulla sua pelle nuda …….
La nausea passò veloce, e il volto massacrato di ferite di lei riprese subito colore.
Lui le aveva insegnato la felicità.
Anche nella semplicità di un buon cibo accompagnato da ottimo vino rosso, nella giusta quantità.
Le aveva insegnato ad amare la vita.
Nel meglio della sua semplicità.
Nelle passeggiate al chiaro di luna.
Nell’ascolto del gracidare delle ranocchie, ai bordi di quel fiume scuro ma pacifico.
Le aveva insegnato a non incidere più graffiti sul suo volto.

Prima che arrivassero gli uomini.
Con lunghi impermeabili bui.
Con mille bit al secondo, con lunghe dettagliate descrizioni depositate in triplice copia all’ufficio Sicurezza Sociale.
Uomini e trappole.
Troppe trappole.
Che riuscirono a ghigliottinare anche il suo bene per quell’essere speciale.
Perdendo.
Perdendola.
Sopra ogni cosa, temo, riconoscendo la vera sconfitta nella sconfitta di lei, nel suo ritorno verso l’illusoria sicurezza del mondo degli uomini.

Ancora una volta mi è stato dedicato assisterla, la sconfitta, in attesa che il tempo la renda nota a tutti.
Assistere alla sconfitta.
Il mio compito.
L’unico che il mio incarico prevedeva.
Da povero semplice ufficiale di sola lettura di editti, sentenze, procedure.

Non so come, perché ero bravo nel mio lavoro.
Ma sono rimasto invischiato in quel processo, irrimediabilmente compromesso anch’io.
Intrappolato anch’io in quella ghigliottina.
Obbligato ad esserci.
In attesa del peggior giorno del mio futuro.
Il giorno nel quale, insieme, mano nella mano, verranno a chiedermi:

 “perché non ci hai salvati?”


FranzK.


martedì 24 aprile 2012

L'Età del Tempo.





I vecchi erano bambini, l’altro ieri.
Profumati, morbidi, nuovi.
I bambini non sanno cosa vuol dire invecchiare, per loro è crescere.
Però invecchiano anche loro.
E quando diventano vecchi si ricordano di quando erano bambini.
E sorridono perché credono di sapere.
Anche se non vorrebbero né ricordare né sapere.
E finiscono per sorridere anche per questo.
O piangere anche per questo.
I ricordi si confondono tra traguardi raggiunti e bobine che non si riavvolgono più.

È veloce il tempo per i vecchi.
Conta al contrario, non più in avanti.
E non lo temono o lo temono troppo.
Tra la speranza di altri ricordi e la certezza della fine.
Non sanno più se amarlo o odiarlo il tempo.
Nel suo spegnersi.
Spegnendo nel fievole ticchettio al contrario, ancora qualche bel giorno o l’inizio del dolore della fine.
Sono saggi a volte i vecchi.
Scontrosi a volte.
Sono insopportabili a volte i bambini, adorabili a volte.

Forse dipende dai vecchi che incontrano.

In mezzo c’è la vita.
Ci sono i desideri.
Il “non tempo”.
I sogni.
Le illusioni.
I progetti.
Le speranze.
Di uomini non più bambini, non ancora vecchi.
Senza tempo da contare.
In avanti o all’indietro.

Poi secca tutto.
E rimane uno sguardo verso un orizzonte senza confine.
Nella statica saggezza.
O nella presuntuosa eterna giovinezza.
Nel credere di aver finalmente compreso.
Nell’arroganza di poter definire verità assolute.
O nella semplicità di tornare un po' bambini.
Di riconquistare sguardi tersi.
Ancora colmi di possibili stupori, anche quelli della nuova avventura della fine.

Non c’è età per essere vecchi.
Non una per essere giovani.
Non una per essere saggi, nello statico di un saggio.
Non un’altra per riuscire a continuare a stupirsi.
Il tempo è fatto di pieni.
Perché sia giovane.
Il suo vuoto lo invecchia.
E invecchia chi gli appartiene.
Chi vive il suo vuoto.
Nell’unica attesa che passi, transitando come un treno senza destinazione.

Giovani nel pieno di un tempo senza rumore.
Vecchi nel vuoto di ticchettii assordanti.
Ci amavamo, ci odiavamo quando eravamo bambini.
Quando diventeremo vecchi, se ci capiterà, ci accontenteremo di osservarli.

Nel pieno del loro tempo.
E nel nostro ormai vuoto.

Solo in un tenero sorriso.
O nelle lacrime di un pianto.


FranzK.


La Coscienza di K.





Quel simbolo che ho usato e poi abiurato non era un falso, adesso lo sai.
Grazie al bene che ho avuto da te ed al tormento della sua perdita, ho trovato il coraggio almeno  di un ricordo.
Una forma senza contorni.
Bianca.
Di abbagliante bianco.
Una forma che ha protetto il mio lucido sguardo.
Per quello che ha potuto.
Per quello che imprevedibilmente è riuscita a proteggere.
Non il tutto che avrebbe potuto, dovuto.
Non ha importanza definirne una similitudine.
Una sembianza con qualcosa di conosciuto.
Una semplice forma abbagliante priva di contorni definiti.
Che non ha protetto per intero, lasciando impronte insopportabili.
Così ho visto.
Senza colpa.
Senza volontà di vedere.
Parte di lei è rimasta in me, per proteggere la mia esistenza.
Forse per sanare il suo senso di colpa.
O solo la casualità che sopravvive anche in altre dimensioni.
Che abita anche in loro.
Era l’ 11 settembre 1969, un giorno qualunque.
Quel giorno dovevo morire.
Era il mio tempo.
Il mio modo.
Non mi è riuscito.
Neppure in quel momento, quello logico, giusto.
A non vendicarmi di Dio.
A cedere ad una volontà.
A sopportarne una che non fosse solo mia.
Ed era solo il mio tempo.
Quello giusto.
In un giorno qualunque, il mio.

Così è rimasta solo quell’ombra luminosa.
Non so ancora adesso se per semplice pietà o per vero amore.
Voglio credere per vero amore.
È rimasta dentro quella figura priva di contorni.
A proteggere la mia esistenza da quella dimensione che non potevo né dovevo sfiorare.
Neppure con uno sguardo.
Come nei miei occhi è rimasto quello che non doveva rimanere, quello che hai visto, che hai conosciuto.

Vedendo in essi parte di ciò che loro,hanno visto.

I miei occhi che nei tuoi hanno trovato lo stesso bagliore, lo stesso bene.
Che qui non esiste, almeno per me.
Non può semplicemente esistere.
Ma anche nella probabile confusione, disperato credere, ho lottato senza tregua.
Ho lottato per lasciarne una piccola prova.
Se non per noi, per chi né sogna né crede.

Quel bene, lasciamelo credere, è nato dai nostri sogni, dalle nostre speranze, dai nostri desideri.
Non importa se era impossibile, è stato sufficiente viverlo per quello che ci è stato concesso.
Lasciami credere almeno per un istante.
Che quel bene siamo stati solo io e te.
Non un destino, solo io e te.

Adesso dormo la notte e ti sogno.
Forse era il sogno l’unica terra dove potevamo vivere insieme, dove poteva vivere non il frutto ma la genesi dell’Amore.
Tutto questo non ti riporterà in vita, purtroppo.
Tutto questo è oltre la vita.
Oltre i confini delle anime con le quali avremmo dovuto comunque vivere.
Figurati se poteva essere contenuto nei confini geometrici del mondo.

E così te ne sei andata, sei morta.
E tutto questo non ti riporterà in vita.
E io non riesco a convincermi della tua morte.
Sei morta,e io vivo.
Sei morta nel meglio della tua vita.
Quanto io non sono riuscito a morire nel giusto della mia morte.
Dove sei?
Perché mi sveglio,e  vivo e mi addormento insieme.
Come se non fosse trascorso un attimo.
Di quella vissuta, trasognata felicità.
Perché sento ancora il tuo profumo?
La tua voce?

Perché quell’ombra mi protegge ancora?
Dai tuoi occhi che adesso vedono.
Anche quello che non sono riuscito a vedere io.
Perché non ci sei più?

E non riesco a sentirmi solo?


FranzK.


mercoledì 18 aprile 2012

Dammi, Vita Mia.





Dammi un giorno.
Uno solo.
Senza vento.
Senza troppo sole.
Senza pioggia arrabbiata.
Freddo troppo gelido.
Caldo soffocante.
Uno solo.
Perché possa comprenderti.
Un giorno di semplice lucidità.
Senza pesi.
Un giorno felice.
Perché possa crederti.

Dammi un ora.
Una sola.
Senza segnali.
Senza rumori.
Di orologi.
Di anime disperate.
Di pulsazioni.
Una sola ora.
Perché mi basta per sentirti.
Per crederti.
Dammi un’ora.
Di silenzio.

Ti prometto che riuscirò a comprenderti.
A sentirti.
A crederti.

Dammi un secondo vita mia.
Uno solo.
Un minuscolo secondo.
Di grazia.
Di semplicità.
Senza dolore.
Senza rabbia.
Percepita.
Spalmata.
Mi basta un secondo.
Per darti il meglio di me.
Per renderti il tuo dono.

Perché non finisca in condanna.
Annebbiata.
Gettata nella comune fossa di un nulla.

Dammi una frazione.
Infinitesima.
Del tuo sconosciuto tempo.
Perché ne possa essere degno.
Senza contraddizioni.
Senza passato.
Senza ricordi.
Senza presenti condanne.
Solo un alito di tempo.
Poco più di un nulla.
Solo per poterti capire.

Dammi ancora un po' di te.
Quanto vuoi.
Quanto può servirmi.
Per capirti.

Solo un tempo appena più del nulla.
Per la più piccola particella.
Che hai creato.

Di Felicità.


FranzK.

martedì 17 aprile 2012

Fiore Selvaggio.





L’ho curata.
Dopo aver perso tutto.
Con serenità.
Senza speranze.
Senza aspettative.
In fondo è solo un ciclo naturale.
Il razionale ne è convinto.
Me ne sono convinto anch’io.
E forse ho perso tutto.
Davvero.
Adesso che il buio è di nuovo la mia casa.
Tornato al razionale del buio.
Anche io.
Là dove posso servire a qualcosa.
Di comprensibile.
Senza più slanci oltre i confini.
Ci vuole altro.
Forse un destino.
Per esserne degni.
Per non finire testardi e stupidi alla fine.
Meglio stupire la stupidità.
Che dedicarsi stupidamente allo stupore.
È più semplice e meno pericoloso.
Meglio ubbidire ad un ordine che provare a far ordine.

Se non è la tua strada, il tuo destino.

Però l’ho curata quella pianta.
Perché era piena di qualcosa di speciale.
Non solo di ricordi.
Ma di vero vissuto.
L’ultima goccia di irrazionale felicità sperata.
L’ultimo atto di coraggio trasgressivo.
Prima del nuovo buio del raziocinio lineare.
E da quel ramo spezzato.
Dallo stesso ramo.
Monco e triste.
Ne è rinato un altro.
Di cui mi sono preso la giusta cura.
Evitando la stupidità dello stupore.
Ma solo l’osservazione del raziocinio.
E dal quella nuova vita.
Quel fiore è rinato.
Per sette volte.
E per sette volte, nello schiudersi dei sui petali, avrò il tempo per cambiare.
Vedrò aprire i suoi sette frutti.
Quei meravigliosi petali bianchi e candidi.
Nell’anniversario di una fine.
Senza più alcun inizio.
Che non sia la fine della fertilità del suo ambiente.
Fino alla fine della morte di quel morto legno appena bagnato.
Dal quale è nato e si è nutrito.
Fino a tornare a vivere, testardo e selvaggio.

L’ultima speranza.
Della stupidità dello stupore.
Poi dentro al buio.
Per tornare a stupire la stupidità.

Un vero, definitivo, addio alla stupidità dello stupore.
Prima dell’ultimo definitivo inizio dello stupore della stupidità.


FranzK.


“bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi”
Friedrich Nietzsche

domenica 15 aprile 2012

L'Algoritmo dell'Amore.





Costruivo algoritmi tanti anni fa.
Quando la mente era giovane e fresca.
Lucida come un pavimento incerato.
Dove scorre tutto.
Facile e veloce.
Con il solo rischio di perdere l’equilibrio.
Ma avevo anche un ottima capacità motoria.
E sono sempre rimasto in piedi.
Partivo da molte variabili.
Indipendenti.
Ognuna con una sua legge.
Con una sua formula certa.
Una curva ben delineata.
Da una formula matematica senza numeri.
Solo logica.
E unità di misura certe.
L’alfabeto di fenomeni naturali.
Come un aforisma senza doppi sensi.
Un’affermazione certa.
Costruivo algoritmi, cercando le interpolazioni corrette.
Cosa mai potesse unire quelle variabili.
Ognuna con una sua legge.
Indipendente dalle altre.
Per trovarne una che potesse farle sposare.
Unica, univoca.
Il contatto giusto.
Per dare origine a una legge comune.
Nel rispetto della diversità delle loro leggi singolari.

Ma per l’amore non ci sono mai riuscito.
A capirne leggi certe.
Anche frammentate ma sicure.
Per poterne definire l’algoritmo di sintesi.
Profumi?
Sensazioni?
Empatia?
Simpatia?
Attrazione?
Sintonia?
Interessi comuni?
Intesa?
Attesa?
Fiducia?
Tremori?
Impulsi?
Oroscopi?
Profili compatibili?
Diversità?
Età?
Prospettive condivisibili?
Caratteri?
Uguali?
Opposti?
Ricchezza?
Povertà?
Condizione?
Valori?
Prove?
Percezioni?
Necessità?
Compromessi?
Sessualità?
Antropologia?
Riproduzione?
Stereotipo?
Normalità?
O solo chimica?
Cellule?
Adatte.
A una reazione non termodinamica.
Che produce di più di quanto usa.
Oltre qualsiasi legge.
Della fisica razionale.

Così ne io ne altri siamo riusciti a costruire un algoritmo.
Forse per fortuna.
Sarebbe finito nel digitale anche lui.
Nel caotico transitorio di qualcosa che presto verrà superata.
E forse la vita perderebbe le sue sorprese.
Il suo significato.
Come quell’assioma dogmatico che per filosofia e teologia  enuncia:
se un giorno Dio in persona venisse a bussare alla tua porta la vita non avrebbe più alcun senso.

Meglio così probabilmente.
Non è necessario digitalizzare profumi.
Non cambierebbe nulla.
Neppure sensazioni.

Ma di una cosa sono certo.
Se , nel silenzio condiviso, stai meglio, molto meglio che solo, forse quello è amore.
Non è un algoritmo.
Solo una certezza.
Priva di matematica quanto riproducibile secondo il metodo scientifico.
Basta provare.
Avere il coraggio di appoggiare la palpebra al cannocchiale Galileano.
Senza neppure strumenti così sofisticati.
In ogni luogo, in ogni momento.
Ogni natura in fondo ha il suo alfabeto.
Il tuo meglio nel silenzio condiviso è la vera prova d’amore.
L’unico algoritmo possibile dell’amore.

Di quello Vero.


FranzK.

Il Telefono di Cristina.





Qualcuno dice che sono i nostri tempi.
La tecnologia.
Il digitale.
Io non ci credo.
Prove e fatti alla mano.
È così da sempre.
Non so ancora per quanto.
Forse per sempre.
Il nascosto, il promiscuo.
Dalla mia solitudine è più semplice.
Una solitudine scelta, decisa.
Nella chiarezza.
Parola complessa la chiarezza.
Che va ben oltre qualsiasi morale.
Anche oltre l’etica.
Ma non riesco a comprendere.
Le fiacche vite che sopravvivono al buio.
Di famiglie tenute insieme con il Bostik.
Di non famiglie.
Di trombamici.
Ovvio che sono io il limitato.
Ma da questa posizione di privilegio.
Della mia solitudine scelta.
L’orizzonte è troppo chiaro.
Non da giudice.
Ma da semplice osservatore.
Distaccato.
Dovrei ricavarne ironia e divertimento.
Ma proprio non mi riesce.
La rabbia è lontana ormai.
Ma il fastidio permane.
Di conoscenti che narrano, che devo ascoltare.
Bugiardi patentati.
Nascosti dietro al “bene dei figli”.
Come se i figli non sentissero.
Non lamentiamoci di generazioni perdute.
Non lamentiamoci e basta.
Di nulla.
Le generazioni perdute le abbiamo create noi.
Per semplice vigliaccheria.
Per un  loro “bene” confuso con le nostre convenienze.
Stabilità.
Con l’esempio di vite finte.
Bugiarde.
Promiscue oltre qualsiasi promiscuità.
Così nei telefoni si celano segreti.
In condivisibili con le persone con le quali si finge di condividere la vita.
Guai ad averne l’accesso.
Si spezzerebbe tutto.
Legami e bene per tutti.
Si celano segreti nei profili di facebook.( ma avesse un chimica almeno ….. un profumo …. un sapore …).
Nelle sue password.
Quanto nei pin di un telefono.
Quattro o più cifre, con dentro tutto un programma.
L’algoritmo dell’infelicità.
Si celano nella contrattazione di serate “libere”.
Nelle coperture degli “amici”.
Per uscite tanto apparentemente innocenti quanto “scure”.
La solitudine impone la tolleranza.
Credo la forma più evoluta di civiltà.
E la tolleranza non prevede un giudizio ma solo necessaria, semplice, constatata osservazione.
La sorgente di tutto è la speculazione.
La convenienza.
La convenienza di evitarsi.
Di evitare giudizi pubblici e pesi insopportabili.
La speculazione di possedere tutto in regola.
Almeno nell’apparenza.
Per poi scovare promiscue emozioni necessarie per vivere.
Che non vivono più con te.
Nel contenitore del “normale”, del pubblicamente sopportabile.
Basta un semplice atto di onestà.
Facciamo tutto, senza limiti ne riguardi.
Ma evitiamo di farlo nel nome del “bene” di qualcuno.
Meglio un kibbutz per i figli.
Per chi ne ha.
Che la stanca finzione di un esempio nebbioso.
Per chi non ne ha faccia ciò che vuole.
È sempre stato così.
Forse lo sarà sempre.
Di rapporti umani ne sopravvivono infiniti.
Nei loro equilibri squilibrati.
Ma ho una certa convinzione.
Come un prurito insopportabile.
Quasi certo.
Da una posizione di chiarezza scelta.
Limpida e trasparente come acqua di sorgente.
Tanto che, povera di sali minerali, finisce per non poter dissetare nessuno.
Quindi sbagliata lei, non la gasata colma di CO2.
La convinzione persiste.
Perché il ghiacciaio di una solitudine semplice non ha fine.
Come possiamo sperare un meglio partendo da un peggio?
Non un meglio morale.
Non uno etico.

Ma almeno cristallino?

FranzK.

venerdì 13 aprile 2012

Distanze troppo Lontane.





Stai dormendo.
Stanca.
Nel silenzio.
Della tua stanchezza.
Lontana.
Oltre il tempo-luce.
Oltre il possibile.
È solo un illusione.
Non conta.
La felicità non è un’illusione
Una speranza sarebbe sufficiente.
Ma non basta un illusione.
Oltre il tempo-luce.
La felicità è presenza.
Prova.
Il contatto della pelle.
O anche un semplice pensiero.
Ma non un illusione.
Che alla fine.
È solo delusione.
Rabbia.
Il negativo di una fotografia.
E stai dormendo.
Stanca.
Non ti sei mai svegliata.
Dal torpore di un illusione.
Solo distanze.
Troppo lontane.
Incolmabili.
Da una speranza vera.
Dalla sua volontà.
Dai suoi rischi.
Dalle sue consapevolezze.
Dormi stanca.
Di vita mai vissuta.
Solo pensata.
Nell’illusione di un sogno.
Che non esiste.
Troppo lontano.
Dalla felicità.
Che vive anche nelle distanze.
Ma non nelle illusioni.
Dormi, stanca.
Della stanchezza del vivere.
Infelice della tua apparente felicità.
Che dorme anche lei.
Mai provata davvero.
Mai vissuta.
Nascosta dalla vita.
A una distanza troppo lontana.
Da lei.
Non sono servite.
Carezze.
E neppure pizzicotti.
Per svegliarti.
Neppure stille di felicità vera.
Ti sei riaddormentata.
Stanca.
Nel sonno delle illusioni.
Delle infinite delusioni.
In fondo è impossibile.
Accendere un mare di benzina.
Con solo un accendino.
Oltre il tempo-luce.
Non c’è altra velocità possibile.
Per raggiungerti.
Colmare distanze troppo lontane.
Dalla felicità possibile.


FranzK.