domenica 22 gennaio 2012

Crisi di modelli.





Una sera, sono rimasto colpito da una frase.
Non ricordo sfortunatamente il nome delle persona che l’ha enunciata.
Diceva pressappoco così:
“siamo passati dalla necessità di riuscire a produrre per poter consumare a quella di dover consumare per poter produrre”.
Sintetica, quanto forse ben centrata, lucida.
Non so neppure se ha necessità di un commento, di una spiegazione.
Mi viene in mente Ford, quello delle automobili.
Della sua semplice formula: un automobile per ogni americano, per la sua libertà, in una terra fatta di immense distanze.
Nel 1917 tre milioni di Ford-T , tutte uguali per un uguale libertà per tutti.
Indusse nel sua azione un modello, dove la “necessità” di tutti passava per la possibilità per tutti di poterla acquisire.
Grazie proprio al “lavoro” diretto e indotto da quell’azione, da quell’idea.
L’automobile esisteva già.
Ma attraverso un pensiero divenne economia, crescita, fruizione di un bene.
Per tutti, nella redistribuzione di risorse estratte, rispetto ad un modello di sviluppo con una finalità condivisa.
Credo che Ford, dopo Smith, creò il modello economico-sociale nel quale viviamo ancora adesso.

Dietro c’era tanta conoscenza, tanta scienza dopo il “buio” medioevale.
Ma non ancora un modello “economico”, pratico per sfruttarne le potenzialità.
Un modello che faceva dei “poveri” il motore principale, della loro necessità di “avere” in cambio del “dare”.
Che ne giustificava i debiti, perché c’era la possibilità di pagarli.
Bastava darsi da fare, e da fare ce n’era per tutti bastava averne “voglia”, volontà.
Avrebbero anche loro, lavorando, potuto comprarsi la Ford-T, la libertà di muoversi e attraverso questa di interscambi are ancora di più, più opportunità, più idee, più condivisione.
Un modello su larga scala, forse ancora più grande, almeno per economia, a quello delle armi, degli armamenti.
Se penso all’indotto dell’industria automobilistica, alle tecnologie che ha generato, al loro continuo miglioramento, non ho dubbi sull’economia che ha giustificato e prodotto.
A tutte le azioni imprenditoriali e a tutte le battaglie per i diritti dei “lavoratori”.
Lavoratori e clienti allo stesso tempo.
Un cerchio ben chiuso.
Un modello privo di falle.
Un modello che ha dato origine al sistema bancario della finanza.
Al sistema di prestito di denaro di chi possedeva le risorse molto prima di chi possedeva la Ford.
Le ricchezze delle risorse primarie che attraverso la Ford trovavano il modo di essere maggiormente valorizzate.

Attraverso l’azione diretta di prestare a Ford il denaro per le sue “imprese” e ai suoi dipendenti quello di acquistare un “automobile”.
E nessuno da nulla per nulla, quindi oltre al maggior valore delle risorse possedute, anche quello derivato dagli interessi da incassare sui prestiti concessi.
A tutti, dai Ford ai suoi dipendenti.
Gli anni della Cina americana, di nuovo per un eccesso produttivo, un offerta che superava la domanda finirono nella crisi del ventinove.
Ma bastava correggere il modello, spostare le necessità altrove per risolverlo, senza assolutamente cambiarlo.
Dall’automobile, alla casa, ai servizi, a tutti gli indotti, non da ultimo una guerra.
Il modello non è mai cambiato, è sempre quello.
Si è ripreso, si è riseduto a cicli continui.
Crisi e riprese, nel succedersi l’una all’altra senza mai cambiare quell’anello ben chiuso, sicuro.
Un modello che ha dato molto, tanto quanto ha trasformato irreversibilmente tantissime risorse, ricchezze.
Un modello che ci permette di essere qui a parlarne.
Diversamente da quello che, nel “comunismo reale”, non ha prodotto che il tentativo di un affermazione ideologica senza produrre una redistribuzione vera di ricchezza per tutti.
E in quella “non produzione”, alla fine, produrre solo la sua fine.

Non esiste un modello buono e uno cattivo.
Forse solo uno furbo e uno meno.
O uno che funziona e uno no.
Nessuno di noi sarebbe disposto a rinunciare ai beni acquisiti dal primo.
Nessuno di noi sarebbe terrorizzato dalla parola “recessione” se fosse così.
Parola che non riguarda solo noi, il nostro paese, ma proprio tutti.
Perché potrebbe essere che il modello a cerchio ben chiuso che prevede solo crescita per vivere sia lui stesso in crisi.
Sia lui la vera crisi.
Di nuovo per eccesso produttivo, per crescita che non sa più da che parte crescere.
E forse non basta correggerlo questa volta, non è sufficiente spostare obiettivi, necessità.
La domanda è semplice, e riprendo da dove sono partito.
Se è vera l’affermazione:
“siamo passati dalla necessità di riuscire a produrre per poter consumare a quella di dover consumare per poter produrre”.
Quanto di più e cosa di più dobbiamo consumare per poter giustificare il produrre e le sue leggi che ne governano la redistribuzione delle ricchezze?
E ne sostengono in tal modo le sue virtù.
E forse ancora più del quanto è il cosa che mi preoccupa.
E per cosa.

Leggevo che dopo la costruzione dei grattacieli più alti segue sempre una crisi economica.
Chissà perché.
Forse è solo perché nel costruirli abbiamo fatto un’opera solo speculativa, ma non utile.
Senza quindi aver generato nessuna continuità, nessun futuro.
Quanto lo abbiamo generato per tante necessità vere, indiscutibili.
Al di là della loro sostenibilità, al di là di qualsiasi risorsa irrimediabilmente trasformata.
Che il cerchio si stia incrinando?
Che quell’anello non sia più ben saldo e saldato su se stesso?
C’è stato un rinascimento intellettuale prima del modello.
La chimica che da “magia” è divenuta scienza.
La matematica e la fisica che hanno spiegato misteri.
E poi un’esplosione di intelletto, non di bombe.
E temo che altre bombe come quelle del ’45 non ritroverebbero risorse sufficienti per una ricostruzione, un’altra “crescita”.
Temo che il “fare e disfare è sempre lavorare” non basti più.
E nel caso non trovassimo più un valido “per cosa”, valido in quanto necessario, potrebbe essere la fine anche di questo modello.
Come un automobile più che senza benzina, senza ruota di scorta e con quattro coperture forate.


E non è terrore quello che deve attraversarci le vene.
Ma la voglia di cominciare il nuovo, anche se differente.
Di guardare altrove, di confrontarci, di non cedere all’abbruttimento, alla non speranza.
Di non cedere alla tentazione di credere che non esistano soluzioni, speranze vere.
È la forza, non la paura che deve attraversarci le vene.
E un desiderio che è forse l’unica necessità senza fine, anche se è difficile, difficilissimo.

La capacità e il coraggio di ricrederci se è necessario, di crederci che è coraggio ancora più grande.
Di rinascere, differenti.

FranzK.

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