martedì 31 gennaio 2012

Im-potenza.



In silenzio, nel rispetto della morte dovuta all'ingiustizia, di tutti gli innocenti del mondo, grandi e piccoli.


Un’altra considerazione di qualche tempo fa che voglio riproporre, nel ricordo di notizie riguardo il Corno d’Africa e i suoi bambini morenti ….:

I chili di troppo inquinano”, lo dicono i ricercatori della London School of Hygiene Tropical Medicine, attraverso uno studio pubblicato sull'International Journal of Epidemiology. 
Bene. 
Ora che la notizia possiamo considerarla certa, data la fonte, credo sia interessante fare qualche considerazione. 

I chili di troppo, dato che non è specificato, penso si riferiscano all’eccesso di grassi conseguente ad una cattiva alimentazione e non , ad esempio, all’eccesso di massa rossa muscolare come conseguenza della trasformazione di un eccesso di grassi attraverso la frequentazione di palestre “ginniche” (J) o di consumo di steroidi e anabolizzanti …... 

Perché credo siano necessarie, rispetto alla Verità della morte, risposte certe a queste domande. 
Tra un uomo in eccesso di grasso di grassi o “grasso” di muscoli: 
  • quale pesa di meno? 
  • quale produce meno CO2
Poi: quale sta meglio? 
Cioè: uno dei due si può considerare in “salute”? 
oppure: quale spreca meno energia

Se qualcuno possiede risposte “ovvie”, prego si faccia avanti. 
In riferimento invece all’immagine del post i quesiti sono invece questi: 
  • l’uomo a sinistra raffigura una immagine significativa riguardo l’efficienza
  • l’alimentazione del gatto al centro può essere correlata con il possibile aumento del Pil
  • il bambino magrolino a destra è in linea con i principi dell'equità e del rigore?

Quale dei tre soggetti rappresentati vi sembra avere uno sguardo  “felice"?

……. fa lo stesso se non si vede bene quello del bambino a destra?

eh?
come?
la crisi, la finanza, la politica, le lobbie, le congregazioni, le caste, le aggregazioni, le polemiche?


……. fa lo stesso vero, se non si vede bene lo sguardo del bambino a destra?


FranzK.

lunedì 30 gennaio 2012

I Giorni della Merla.





Eccoli, sono arrivati.
I giorni della merla.
I giorni più freddi dell’anno secondo tradizione.
E pare che quest’anno il volatile sia stato puntuale.
Non stia tradendo aspettative.
Quanto lo ha fatto l’inverno almeno.

Anche se stanotte il freddo polare che ho attraversato passeggiando non l’ho sentito negativo.
Come il bianco della neve che rende tutto così magico.
Forse è la necessità della natura di dormire un poco.
Di riposarsi, quanto il ghiaccio che copre la terra è forse solo una coperta nel quale ha necessità di raggomitolarsi per un po'.
L’ho sentito come un tempo necessario di riposo.
Un sonno sereno.

Che sia freddo allora, che sia riposo.
Prima di altre rigogliose rinascite.
Di sudori lamentati in altro modo, circondati da verdi smaglianti.
Di cellule in continua trasformazione.
Che sia un buon riposo, con buoni sogni.
Che il freddo lo protegga, ne protegga un risveglio più vigoroso.

La mente corre alla mia infanzia.
Ai risvegli di lato ad una finestra piangente di stalattiti di ghiaccio interne, appena sopra la mia testa.
Quel momento tremendo di uscire dall’abbraccio della piuma d’oca.
Dal suo calore così naturale.
Per affrontare temperature poco superiori  a quelle esterne.
Battendo ogni giorno il guiness dei primati del tempo della vestizione.

Nelle mie terre c’era una tradizione, nei giorni della merla.
Un momento magico per bambini e adulti.
Si colmava d’acqua un piatto fondo e, alla sera, ognuno lo disponeva all’aperto, ognuno al posto prescelto.
Fuori al freddo glaciale della notte, appena prima di andare a dormire, rimuovendo il “prete” .
Un doppio arco di legno che sollevando la coperta, creava una camera d’aria preriscaldata dal ferro da stiro in ghisa colmo di braci ardenti di cui faceva oltremodo da supporto.
Così quando ti infilavi nel letto avevi almeno qualche secondo, non di più, perché il calore del tuo corpo si trasferisse alle piume d’oca  affinché loro lo trattenessero per tutta la notte isolandolo dalla Siberia appena lì fuori.

La mattina dopo era festa.
Perché ognuno correva al suo piatto, e ricorreva veloce davanti al camino, tutti insieme, tutti riuniti.
E dentro nelle forme dei cristalli di ghiaccio si interpretava il proprio futuro, il suo auspicio.
Una festa semplice, quanto indimenticabile nello sfidarsi a riconoscere la forma più attendibile, più vera.
E quante volte era vero quello che quei cristalli nel proprio piatto disegnavano del proprio futuro.
O forse erano solo semplici credenze e passatempi da poveri, chissà.

Chissà se provassimo adesso a colmare un piatto comune quale premonizione cristallina scolpirebbe.
Non siamo più poveri e non crediamo più in nulla, forse anche se fosse vero non ci crederemmo lo stesso.

Comunque stanotte il freddo polare che ho attraversato passeggiando non l’ho sentito negativo.
Come il bianco della neve che ha reso tutto così avvolto, protetto, definito.
Forse è la necessità della natura di dormire un poco.
Di riposarsi.
L’ho sentito solo come un tempo necessario, per riposare, riprendersi.
Un sonno sereno.

Sperando di risvegliarsi carichi di bellissimi sogni verde smagliante.
Magari un po' più poveri ma con la forza necessaria per credere ancora in qualcosa.

FranzK.

domenica 29 gennaio 2012

Giochi proibiti.





Stare abbracciati.
Il  magico contatto dei nostri corpi.
Sfiorarci.
Appoggiando le mie labbra sul tuo collo, avvolto nei tuoi capelli.
Cercare le mani.
Intrecciandone i tarsi.

Tenerti il viso scompigliandoti i capelli.
Appoggiando le mie labbra sulle tue.
In una carezza di caldo.
Labbra morbide.
Baci delicati, che inseguono forme, modi, nèi segreti.
Legami di sapori, di intese.

Abbiamo tempo.
Non deve finire mai, tempo.
C’è caldo dentro mentre fuori nevicano fiocchi bianchi, tanto tempo.
Tempo  per contare ogni singolo cristallo caldo delle tue caviglie.
Intrufolare le dita delle mie mani tra gli intagli delicati di quelle dei tuoi piedi.
Percorrere tendini, contarli,  fino al loro perdersi nelle caviglie.

Non deve finire, fuori nevicano fiocchi grandi come la nostra gioia.
C’è tanto caldo nell’avvolgersi delle nostre gambe.
Corro sulle tue forme, con calma, sul sinuoso dei tuoi stinchi, sul morbido dei polpacci.
Scivolando come sapone liquido fino alle ginocchia, alla loro consistenza.
I miei polpastrelli hanno fame di tutte le geometrie, quanto i nostri occhi dei nostri pensieri.
E i cuori arrampicano il loro ritmo, fino ai sospiri, sincroni, respirati insieme

Accogliere i tuoi fianchi, il tuo ventre.
Ti abbracci a me.
Non resistono le tue gambe, sopra le ginocchia, le tue cosce, al contatto con il mio desiderio, il tuo.
Fremono e s’inarcano, tremano e respirano.
Sei felice, sono felice, basta sorriderci, non servono parole.
I tuoi seni mi aspettano, mi invocano, con segnali precisi, sinceri.

Il  viso trova pace abbandonandosi su un lato, finalmente in pace.
I palmi delle tue mani prolungano il mio cercarti attraversando le tue braccia, aperte, distese, fino alle spalle.
Baci e carezze, fino ad inebriarle .
Mentre i pori della tua pelle si gonfiano un po', delicati quanto decisi.
Scorro piano dietro alle tue ginocchia, in quella piccole tane accoglienti.
Le tue mani corrono sulle mia schiena fino alla nuca, stringendola a te.

E fuori nevicano grossi fiocchi di neve.
Solo le lancette dell’orologio si sono fermate, conoscendoci.
E dentro è caldo, tanto caldo.
Una cosa sola, in due.
Abbiamo tutto il tempo, si è fermato il dannato.
Ha dimenticato notte e giorno.

Dentro è caldo, crepitano roventi i nostri sentimenti.
Senza tempo, senza che il tempo possa mai fermarli.
Nei giochi proibiti solo per chi di tempo se ne concede uno, che non può altrimenti.
Per noi non è possibile.
Non lo sarà mai.
Abbracciati dentro, sempre, senza tempo.

Fino a che ci accolga un piccolo sereno riposo.
Prima di ricominciare.
Ancora, ancora, ancora .......


FranzK.

sabato 28 gennaio 2012

Quando sarai grande.





Eri felice ieri sera.
Avevi una “cosa bella “ da dirmi.
Forse non ti ho mai sentito così contento.
A volte la vita rende, oltre a togliere.
Fuori da qualsiasi programmazione, piano.

E  ti sei emozionato, non per vergogna ma per il suo contrario.
Chissà come è successo.
Che fuori da qualsiasi “progetto” la vita possa regalare così tanto.
E forse lo può dare solo nelle sue regole, nei suoi progetti, non nei nostri.
E mai ti ho sentito così felice.

Perché non te lo aspettavi.
Che a metà lezione si parlasse di tuo papà.
In pubblico.
Davanti a tutti i tuoi compagni di classe.
Di quello che è tuo papà, che non posso dire, ma che tu adesso sai.

Non passerà per te.
Non passerà per me.
Mai.
E’ un "per sempre" voluto dalla vita.
Forse perché lo meritavi, ne avevi diritto.

Così quando sarai grande, potrai venire qui a leggermi.
A conoscermi, anche nelle cose che adesso non sai.
Quando sarai grande spero verrai qui.
A ritrovare le cose che la vita ti ha dato e ti ha tolto.
Troverai me, quello che a metà lezione ti hanno detto di me.

Troverai la metà di te.
Che non ha saputo né voluto mai nascondersi.
E spero troverai le parole che hai sentito ieri.
Che, per una volta ti hanno reso fiero.
Di essere mio figlio.

Quando sarai grande spero potrai capire.
Tutto l’amore che non mi ha risparmiato, che non ti ho risparmiato e che non ha risparmiato neppure te.
Anche quello che ci ha divisi, ma non disuniti.
E troverai solo un uomo, come te.
Di cui spero poter andare fiero, sempre, come ieri.

Tuo papà.

Francesco.

venerdì 27 gennaio 2012

Privacy&Libertà.





Che argomento, vista anche l’ora.
Il Privato e la Libertà.
Credo ci siano almeno due punti di vista.
Il primo che siano la stessa cosa.
Il secondo che siano l’opposto.

Sicuramente né l’una né l’altra sono leggi fisiche.
Non lo è la privacy nel concetto “giuridico” e solo giuridico, del the right to be let alone (lett. "il diritto di essere lasciati inpace")
E neppure la Libertà che è filosofia in tutte le sue accezioni.
Come questa:

Nel caso siano la stessa cosa una eccede l’altra.
Senza alcun dubbio, neppure giuridico.
Se “essere lasciati in pace” è un diritto, è intrinseco che puoi fare quello che vuoi, che sei Libero.
Senza costrizioni o intimidazioni.
Così, se per giurisdizione scegli per la Libertà come prima gerarchia, mi pare evidente che l’”essere lasciati in pace” non possa che essere già ben contemplato in essa.

Ma siamo certi siano la stessa cosa?
Che invece non siano l’opposto?
Che l’una non possa che negare l’altra?
…. Nel diritto di resistere, di essere impopolare, di schierarti per le tue convinzioni per il solo fatto che sono tue.
Come può un tale diritto “lasciare in pace” il popolare del tuo impopolare?
Come può la Libertà che è azione, conciliarsi con divieti, costrizioni, nascondigli?

Forse le abbiamo inventate tutte e due per esigenze nostre, per credute decisioni.
Che sono solo indecisioni, temo.
In modo da farne valere l’una o l’altra secondo la propria convenienza, l'evenienza.
Tutto segreto e protetto se hai qualcosa da nascondere.
Tutto possibile e Libero se hai qualcosa da affermare.
O anche il contrario, dipende dalla tua forza.

Filosofia e giurisdizione.
Invenzioni estemporanee.
Temo proprio solo invenzioni da usare secondo il transitorio di un capriccio solo personale.
Sopa e Pipa e Fava,(ma li hanno scelti a caso i nomi o li hanno affidati alla fantasia di un comico?) mentre al  cloud computing ( tutto in rete, tutto non più tuo) finanziano milioni di euro.
Tutti su Facebook,alla strenua ricerca del pubblico (tutto suo comunque) ma con tutte le restrizioni del privato.(che di te sa tutto comunque).
Frequentatori di case di prostituzione, che invocano la buoncostume.

Un cimitero di facce morte, altro che facce da libro, un cimitero di croci condizionate, tutte uguali, all’americana.
Per noi che abbiamo sognato disperatamente un mondo fatto di Uomini e Donne.
Vere.
Univoche, che è molto di più che Libere.
Molto di più che “lasciate in pace”.
Che è proprio l’opposto della Libertà.
Se mai fosse la Libertà il desiderio vero.
Se mai anche fuori dai "Facebook" potesse funzionare diversamente.

Ma le Persone, quelle Vere, dove sono?

FranzK.

giovedì 26 gennaio 2012

Arpeggio.





Fai vibrare le tue corde.
In libertà.
La tua melodia.
Arpeggia le tue emozioni.
Non importa la fine, la morte.
Che non è fatta di battiti cardiaci.
Non di ossigeno consumato o di malattie.
Ma solo di emozioni, di quante riesci a viverne.
Trova il tuo ritmo.
Il poco tempo ne vale la pena.
Perché è poco.
Per scrivere le tue armonie.

Non preoccuparti se è solo tua.
La melodia.
Conta per molti.
Anche se non appare così.
Non rimarrà un disco impolverato.
Una traccia perduta.
Arpeggia il tuo sincero.
Senza timori.
Il tuo vero.
Senza paura di essere ascoltato.
Senza paura di non esserlo.
La vita è fatta solo di emozioni, ne ha necessità.

Non preoccuparti dell’intonazione.
Della cassa di risonanza.
Resta tutto qui.
E serve la tua melodia.
È parte della vita di tutti.
E resta tutto qui.
Per sempre.
Arpeggiati come uno strumento.
Senza intonazione.
Ma ricco di emozioni.
Di armoniche differenti.
Ognuno, nella sua cassa armonica, le sentirà a suo modo.

Ma non ha importanza.
Resta tutto.
E serve la tua melodia.
È la tua vita, la vita di tutti.
  
E resta qui la tua traccia.
Arpeggiane una, la tua, sincera.
Perché resta qui.
Per te, per tutti,  per sempre.

FranzK.

mercoledì 25 gennaio 2012

A un Amore mai morto.



se vuoi ascoltarlo:




Sentirti.
Sempre.
Dentro.

Parole, ragionamenti, cattivi ricordi?
A cosa servono?
Per distruggere?
Per dimenticare?
Cosa?
Le gioie vere vissute?
Le possibilità vere possibili?
Di una felicità vera?

Cosa devono sopire le parole, i ragionamenti?
Il mio pianto?
La mia perdita?
Il mio vuoto?
E poi?
Cosa resta, cosa potrebbe restare dopo?
Ancora da sopire?
La verità?

Che ti sente.
Sempre, ogni singolo istante.
Dentro.
Che sia, allora.
Sia pianto, perdita, vuoto.
Nel vero del sentirti.
Sempre, ogni singolo respiro.
Dentro.

Davanti all’immenso dolore.
Che possa non morire mai.


Francesco.


Dedicato a un vero Amore di qualsiasi natura, perduto ma mai morto.

martedì 24 gennaio 2012

Deframmentare.





Gli informatici lo conoscono bene.
Il termine.
Il defrag anglosassone dell’hard disk.
Che cerca di riavvicinare tracce elettromagnetiche.
Che si sono allontanate.
Tracce per eseguire un programma.
Tracce che, nell’eseguirlo si sparpagliano.
Allontanandosi.
Tutto si rallenta, perché la povera testina deve correre all’impazzata.
Per ritrovarle.
Quelle tracce con dentro scritte delle istruzioni.
Un po' sole anche loro, che avrebbero necessità di stare vicine.
Un po' troppo lontane.
Per essere efficienti nella loro necessaria consecuzione.

Forse dovremmo deframmentarci anche noi.
Imparare a riconoscerci nell’appartenere allo stesso programma.
Ad evitare di divenire cluster lontani o danneggiati.
Fare rinascimento è anche questo.
Fuori da qualsiasi controllo e controllore.
Trovarci, parlarci, condividere.
Non con un “mi piace” o con un +.
Non dentro ai sistemi tracciati.
Ma fuori.
All’aria aperta.
Dove c’è ossigeno.
E vita.
Non  dentro a un forum, una chat, una videoconferenza.
Fuori da una sfida personale.

Già.
Non per sfida soprattutto.
Ma per uguale programma.
Non per diverbi, ma comprensioni.
Non con nick, ma con la nostra faccia.
Deframmentarci è stare vicini.
Sistemare zone.
Non elettromagnetiche.
Non tracce volatili, ma ben impresse.
Su supporti indelebili.
Su coscienze pulite, con una coscienza.
Con occhi propri, fuori da qualsiasi condizionamento.
Da qualsiasi interesse.
Che non sia la coscienza, di un programma necessario.
Fino alla fine, solo perché nulla ne abbia una.



FranzK.

lunedì 23 gennaio 2012

A un Amore mai nato.






Un battito.
Uno solo.
Un istante.
Per capire che è vero.
Caldo.
Dentro.
Un istante.
Per sentire.
Il caldo tiepido.
Del tuo corpo.
Del suo.
Chimica.
Pelle.
Contatto.
Suoni.
Profumi.
Un battito.
Solo uno.
Semplice.
Vero.

Emozione.
Forte.
Semplice.
Intrigante.
Ma semplice.
Tua.
Sua, vostra finalmente.
Tiepida.
Calda.
Attesa.
Lunga.
Spasmo.
E attesa.
Invito.
E rifiuto.
Ricerca.
E addio.
Mentre cresce.
Candido.
Giusto.

Tempo.
Parole.
Infinite.
Desiderio.
Infinito.
Tuo.
Suo, vostro finalmente.
Che cerca.
E abbandona.
Che abbandona.
E cerca.
Ancora.
Guerra.
Dentro.
E torna.
E fugge.
Guerra.
Uterina.
Che crede.
Che non crede.

Mentre cresce.
Candido.
Pulito.
Giusto.
E ancora guerra.
Per distruggerlo.
Per provarlo.
Per un no.
Già deciso.
Per un si.
Sentito.
Per un tutto.
O un niente.
Guerra.
Ancora.
Per cambiare.
Per credere.
Tua.
Sua.
Perché?

Campanelli d’allarme?
Nel candido?
Passato e futuro?
Uterino?
Legami?
Dove?
Silenzio.
Addio.
Abbandono.
Per sempre.
Il peggio.
Regole.
Leggi.
Ancora prove.
Imposizioni.
Desiderio.
Che non muore.
Ma che non vive.
Sospeso.
Nascosto.

Spaventato.
Che uccide.
Il candido.
Il tempo.
Il semplice.
Del vero.
Perché?
Uccidere un amore vero?
Perché?
Uno giusto.
Fedele.
Vero.
Semplice.
Povero.
Solo.
Massacrato ma vero.
Perché?
Non farlo nascere?
Come un bimbo.
Sano.

Stringerlo come un bimbo.
Perché?
È semplice.
È puro.
È innocente.
Della sua vita.
Quell’amore.
Non ha colpa di nascere ma merito di esistere.
Perché?
È solo vero.
Morbido.
Come la pelle di un bimbo.
Delicato.
Come la sua vita.
Lottata.
Per vedere la luce.
Perché?
Non stringerlo in calde fasce.
In una ninna nanna.
Quasi materna.

Un battito.
Uno solo.
Non serve altro.
Per un amore vero.
Non servono prove.
Ma calde fasce.
Se no muore.
Muore dentro.
Non nasce mai.
Perché basta.
Un istante.
Per sentire.
Un battito.
Solo uno.
Quello giusto per capire che è vero.
Altrimenti muore.
Non nasce.
Perché basta.
Quell’istante.
Uno solo.

Per capire.
Sentire.
Che è d’amore vero.
Che è fatto.
Null’altro.
Nessuna prova.
L’uccidono le prove.
Non nasce.
Basta un alito.
Per sentire.
Che è vero.
Che ti cambierà.
E che non devi temere quel cambiamento.
Se no muore.
Non nasce.
Perché?

Perché è d’amore vero.
Che è fatto e basta.
Più delicato.
Della pelle di un bimbo.

FranzK.

domenica 22 gennaio 2012

Crisi di modelli.





Una sera, sono rimasto colpito da una frase.
Non ricordo sfortunatamente il nome delle persona che l’ha enunciata.
Diceva pressappoco così:
“siamo passati dalla necessità di riuscire a produrre per poter consumare a quella di dover consumare per poter produrre”.
Sintetica, quanto forse ben centrata, lucida.
Non so neppure se ha necessità di un commento, di una spiegazione.
Mi viene in mente Ford, quello delle automobili.
Della sua semplice formula: un automobile per ogni americano, per la sua libertà, in una terra fatta di immense distanze.
Nel 1917 tre milioni di Ford-T , tutte uguali per un uguale libertà per tutti.
Indusse nel sua azione un modello, dove la “necessità” di tutti passava per la possibilità per tutti di poterla acquisire.
Grazie proprio al “lavoro” diretto e indotto da quell’azione, da quell’idea.
L’automobile esisteva già.
Ma attraverso un pensiero divenne economia, crescita, fruizione di un bene.
Per tutti, nella redistribuzione di risorse estratte, rispetto ad un modello di sviluppo con una finalità condivisa.
Credo che Ford, dopo Smith, creò il modello economico-sociale nel quale viviamo ancora adesso.

Dietro c’era tanta conoscenza, tanta scienza dopo il “buio” medioevale.
Ma non ancora un modello “economico”, pratico per sfruttarne le potenzialità.
Un modello che faceva dei “poveri” il motore principale, della loro necessità di “avere” in cambio del “dare”.
Che ne giustificava i debiti, perché c’era la possibilità di pagarli.
Bastava darsi da fare, e da fare ce n’era per tutti bastava averne “voglia”, volontà.
Avrebbero anche loro, lavorando, potuto comprarsi la Ford-T, la libertà di muoversi e attraverso questa di interscambi are ancora di più, più opportunità, più idee, più condivisione.
Un modello su larga scala, forse ancora più grande, almeno per economia, a quello delle armi, degli armamenti.
Se penso all’indotto dell’industria automobilistica, alle tecnologie che ha generato, al loro continuo miglioramento, non ho dubbi sull’economia che ha giustificato e prodotto.
A tutte le azioni imprenditoriali e a tutte le battaglie per i diritti dei “lavoratori”.
Lavoratori e clienti allo stesso tempo.
Un cerchio ben chiuso.
Un modello privo di falle.
Un modello che ha dato origine al sistema bancario della finanza.
Al sistema di prestito di denaro di chi possedeva le risorse molto prima di chi possedeva la Ford.
Le ricchezze delle risorse primarie che attraverso la Ford trovavano il modo di essere maggiormente valorizzate.

Attraverso l’azione diretta di prestare a Ford il denaro per le sue “imprese” e ai suoi dipendenti quello di acquistare un “automobile”.
E nessuno da nulla per nulla, quindi oltre al maggior valore delle risorse possedute, anche quello derivato dagli interessi da incassare sui prestiti concessi.
A tutti, dai Ford ai suoi dipendenti.
Gli anni della Cina americana, di nuovo per un eccesso produttivo, un offerta che superava la domanda finirono nella crisi del ventinove.
Ma bastava correggere il modello, spostare le necessità altrove per risolverlo, senza assolutamente cambiarlo.
Dall’automobile, alla casa, ai servizi, a tutti gli indotti, non da ultimo una guerra.
Il modello non è mai cambiato, è sempre quello.
Si è ripreso, si è riseduto a cicli continui.
Crisi e riprese, nel succedersi l’una all’altra senza mai cambiare quell’anello ben chiuso, sicuro.
Un modello che ha dato molto, tanto quanto ha trasformato irreversibilmente tantissime risorse, ricchezze.
Un modello che ci permette di essere qui a parlarne.
Diversamente da quello che, nel “comunismo reale”, non ha prodotto che il tentativo di un affermazione ideologica senza produrre una redistribuzione vera di ricchezza per tutti.
E in quella “non produzione”, alla fine, produrre solo la sua fine.

Non esiste un modello buono e uno cattivo.
Forse solo uno furbo e uno meno.
O uno che funziona e uno no.
Nessuno di noi sarebbe disposto a rinunciare ai beni acquisiti dal primo.
Nessuno di noi sarebbe terrorizzato dalla parola “recessione” se fosse così.
Parola che non riguarda solo noi, il nostro paese, ma proprio tutti.
Perché potrebbe essere che il modello a cerchio ben chiuso che prevede solo crescita per vivere sia lui stesso in crisi.
Sia lui la vera crisi.
Di nuovo per eccesso produttivo, per crescita che non sa più da che parte crescere.
E forse non basta correggerlo questa volta, non è sufficiente spostare obiettivi, necessità.
La domanda è semplice, e riprendo da dove sono partito.
Se è vera l’affermazione:
“siamo passati dalla necessità di riuscire a produrre per poter consumare a quella di dover consumare per poter produrre”.
Quanto di più e cosa di più dobbiamo consumare per poter giustificare il produrre e le sue leggi che ne governano la redistribuzione delle ricchezze?
E ne sostengono in tal modo le sue virtù.
E forse ancora più del quanto è il cosa che mi preoccupa.
E per cosa.

Leggevo che dopo la costruzione dei grattacieli più alti segue sempre una crisi economica.
Chissà perché.
Forse è solo perché nel costruirli abbiamo fatto un’opera solo speculativa, ma non utile.
Senza quindi aver generato nessuna continuità, nessun futuro.
Quanto lo abbiamo generato per tante necessità vere, indiscutibili.
Al di là della loro sostenibilità, al di là di qualsiasi risorsa irrimediabilmente trasformata.
Che il cerchio si stia incrinando?
Che quell’anello non sia più ben saldo e saldato su se stesso?
C’è stato un rinascimento intellettuale prima del modello.
La chimica che da “magia” è divenuta scienza.
La matematica e la fisica che hanno spiegato misteri.
E poi un’esplosione di intelletto, non di bombe.
E temo che altre bombe come quelle del ’45 non ritroverebbero risorse sufficienti per una ricostruzione, un’altra “crescita”.
Temo che il “fare e disfare è sempre lavorare” non basti più.
E nel caso non trovassimo più un valido “per cosa”, valido in quanto necessario, potrebbe essere la fine anche di questo modello.
Come un automobile più che senza benzina, senza ruota di scorta e con quattro coperture forate.


E non è terrore quello che deve attraversarci le vene.
Ma la voglia di cominciare il nuovo, anche se differente.
Di guardare altrove, di confrontarci, di non cedere all’abbruttimento, alla non speranza.
Di non cedere alla tentazione di credere che non esistano soluzioni, speranze vere.
È la forza, non la paura che deve attraversarci le vene.
E un desiderio che è forse l’unica necessità senza fine, anche se è difficile, difficilissimo.

La capacità e il coraggio di ricrederci se è necessario, di crederci che è coraggio ancora più grande.
Di rinascere, differenti.

FranzK.

sabato 21 gennaio 2012

Neppure la morte.





Neppure la morte.
Neanche quella.
Può bastare al rispetto.
Quando c’è di mezzo un sentimento.
Sono tutti giudici.
E non basta neppure la morte.
Per loro.
Loro che quando dovranno affrontarla.
Chiederanno più comprensione degli altri.
Molto di più dei “semplici” che hanno provato a capire.
Il perché del tuo gesto.
Nella buona fede.
Non nel sarcasmo o nell’ironia.
Ma nella buona fede.
Che io voglio sperare.
Credere.
Di quel matrimonio speciale.
Andato oltre qualsiasi pregiudizio.
Oltre il peggior pregiudizio.
Di sposare una morta.
Non una deforme, una pazza, una differente.
Non una vecchia, una di cattivo costume.
Ma una morta.
E spero in buona fede.
Perché sono lontano e non posso sapere.
Del vero.
E spero oltre l’esibizionismo, oltre l’autolesionismo.
Spero l’hai sposata anche solo per disperazione.
Mi basterebbe.
La disperazione del tuo gesto.
Anche se poi si dovesse mai ricredere.
Perché la vita è lunga e dura.
Mi basterebbe.
Anche fosse solo stata disperazione.

Tutti giudici quando c’è un sentimento di mezzo.
Tutto gossip.
Forse avresti dovuto sposarla di nascosto.
Dagli occhi indiscreti del mondo.
Forse, non so.
Se fosse vero l’amore per lei.
L’avresti protetta almeno dall’ignoranza dei giudizi.
Dei facili sarcasmi quanto dai facili “sentimentalismi”.
Perché per gli uomini i sentimenti non sono una cosa seria.
Sono passeggeri, nel meglio dei loro giudizi.
Passa tutto, figurati qualcosa di cui non si conosce la legge.
In questo mondo di teste di sasso.
Che non credono neppure dinanzi all’evidenza.
Al semplice raziocinio.
Figurati un sentimento.
Figurati, nel caso lo sia, un vero Amore.
E voglio credere nella buona fede.
Nella tua disperazione.
Almeno.
Che hai superato il pregiudizio più grande.
La morte.
Per solo Amore.
Vero.
Grande dono per davvero pochissimi.
Voglio credere che sia vero.
Che quell’anello al dito valga un “per sempre”.
Che quel bacio su un volto gelido lo sia.
Allora varrebbe il vero.
Il pubblico del tuo gesto.
La spettacolarità che ne ha fatto fare il giro del mondo.

Perché si può morire in vita.
E patire uguale.
Disperarsi allo stesso modo.
Sposarsi nel silenzio di una promessa.
Vera.
Anche senza far rumore.
Per sempre.
Soffrendo uguale o forse di più.
Io spero nella buona fede.
Voglio crederci.
Che tu l’abbia sposata per Amore.
Quello vero.
Quello che pochi hanno davvero avuto.
Forse solo come dono.
E anche come fardello.
E se neppure la morte.
Può bastare al rispetto.
Figuriamoci la vita.

Allora forse è meglio non far rumore.
Proteggere ciò che provi.
Nel silenzio.
Del tuo “per sempre”.
Vero.


FranzK.

venerdì 20 gennaio 2012

La galaverna dentro.





Tempo di galaverna.
Di ghiaccio e freddo.
Che avvolge tutto.
Quando non c’è ricambio d’aria.
Quando l’umidità è alta.
Quando la temperatura è sotto lo zero.

Il tempo della gelida galaverna.
Che da “padano” ho vissuto tante volte il suo spettacolo.
A volte triste, a volte allegro.
Un po' come quando vai a Venezia.
Se sei triste, lo diventi ancora di più.
Più allegro, se sei allegro.

La galaverna moderna è anche fatta d’altro.
Di chimica.
Sfortunatamente.
Oltre quella naturale.
Ad avvolgere nel gelo tutto.

Poi  ne esiste anche di natura differente.
Quella dentro.
Quella che non è mai uno spettacolo da contemplazione.
Il freddo dentro.
Che avvolge tutto.
Tutto quello che dovrebbe essere caldo, bollente.

I nostri sogni.
Le nostre speranze.
La nostra sperata e disperatamente rincorsa felicità.
E ne sento la presenza.
Dentro le persone.
Dentro le notizie che ne narrano il vivere.

Quel freddo ghiacciato.
Quel gelo impotente.
Quell’incapacità di scaldarsi ancora.
Di credere.
Come se quel gelo avesse congelato tutto.
Un tre stelle senza prospettive.

O solamente con le solite.
Ancora più sotto zero.
Sempre più frollate.
Il gelo è tremendo.
Ti impedisce di pensare.
Di ricordarti che il tuo sangue è caldo.

La galaverna dentro.
Al cuore e alle menti delle persone.
Nelle loro tasche.
Nelle loro possibilità.
Nella loro onestà.
Nei loro sguardi congelati verso un'unica direzione.

La galaverna che blocca pupille.
E la mobilità del collo.
Con nessuna possibilità di girarti.
Di guardarti intorno.
In su e in giù.
Per trovare il caldo necessario.

Persone congelate.
Urlanti dal dolore.
O silenziose e ben riposte nella ghiacciaia.
Arrabbiate e sconsolate.
Che aspettano qualcuno che sbrini.
Che decida per un disgelo.

La galaverna dentro è pericolosa.
Può divenirlo nel tutto contro tutti per un solo accendino.
È una Venezia sempre triste..
Senza speranza di sopravvivere a se stessa.
Un freddo troppo freddo.
Che aspetta immobile, come i rami irrigiditi di un albero, qualcuno che decida per un disgelo.

Per un’altra primavera, nuova.
Senza inverno.
Senza rischi di ustioni da troppo caldo e troppo freddo.
Senza rischi di amputazioni.
Di galaverne troppo fredde.
Troppo chimiche.

O solo troppo tristi.

FranzK.

giovedì 19 gennaio 2012

L'Umiltà.





Ho avuto due maestri.
Di uno, donna, ho già raccontato.
L’altro era un uomo.
Uomo, non scimmia come i tanti altri che credo di non aver avuto solo io.
Tanto uomo da assicurare a tutti i suoi alunni una certezza.
Che non ci sarebbero stati bocciati.
Scatenando tifo da stadio.
Quando ci spiegò il perché cadde il silenzio.
Per la prima volta, in quella classe “pericolosa”.
Famosa per mandare professori in casa di cura.
Psichiatrica.
E quella classe cambiò, per sempre.
Divenne silenziosa e attenta.
Ecco il perché che cambiò le nostre vite:
“sono il professore più pagato di questo istituto e il motivo è perché sono il più bravo”.
“sono così bravo che basterà una sola lezione perché ognuno di voi impari a conoscere “.
“anche solo una presenza, per poter essere preparati per l’esame dell’anno successivo”.
“ecco perché non ci saranno bocciature, ecco perché sono il più pagato”.
“una sola lezione, vi basterà ad affrontare la prova, come sicuramente preparati”.

E fu così.
Non è una favola, è la verità.
L’anno successivo, l’anno della “maturità”, portammo tutti la sua materia.
Anche quelli che avevo seguito una sola lezione.
Tutti promossi a pieni voti.
A voti più tondi e ricchi di chi aveva obbligato altri a tormenti e immani sacrifici.
Lo portiamo tutti nel cuore.
Nel suo trapasso, era già molto vecchio allora.
Di anni si intende, mai conosciuto un vero giovane come lui.
E non lo portiamo solo nel cuore.
Ma nella nostra vita.
Nel nostro essere al suo posto adesso.
Nella speranza, ognuno nel suo, di esserne degni.
Di aver imparato così tanto, in così poco.
Degni di una verità che sconfina oltre  professioni e professori.
Nozioni e memoria.
Nell’aver compreso come si fa a comprendere.
Qualsiasi cosa ti si proponga davanti.
Qualsiasi incomprensione, prima di qualsiasi formula.

E un giorno ci interrogò riguardo una semplice domanda.
Riguardava l’”umiltà”.
Cos’è l’umiltà?
Me lo ricordo come fosse adesso.
Il suo sorriso tranquillo mentre ognuno di noi sparava la sua.
Tutte diverse tutte uguali, le nostre risposte.
Secondo lo stereotipo acquisito, trasversale a dottrine, educazioni, stati economici.
Dai figli dei borghesi piccoli o grandi, a quelli della plebe.
Il suo sorriso tranquillo e sapiente.
Di uno che non avrebbe mai abbandonato la nave, non l’avrebbe mai portato contro uno scoglio.
Aspettò con pazienza tutte le nostre risposte.
Tutte differenti, tutte uguali.
Tutti i nostri esempi, le nostre tesi.
Aspettò prestando attenzione, ascoltandoci davvero.

Alla fine, con calma, parlò lui.
Spiegandoci davvero cosa mai fosse l’umiltà.
E ci cambiò per sempre.
Tutti credo.
Per sempre credo.
Ebbene, ci spiegò l’umiltà anche con un esempio.
Semplice.
Che se sai guidare una nave devi “pretendere” di farlo.
Non proporti ma affermarti.
E se cade un bimbo nel fiume e tu sei campione di nuoto.
Devi “pretendere” di essere tu a provare a salvarlo.
Oltre a “pretendere”, importi sulla sola temerarietà degli altri, o solo umano desiderio di utilità.
Impedendo a loro di provarci.
Pretendere di impedire loro, anche solo per “umanità”, di divenire vittime, tentati eroi.
A costo di legarli a un palo.
Così ci insegnò l’umiltà.
Quella vera credo, quella giusta.
Quella della “pretesa” di un passo avanti se sei certo di te, se conosci davvero.
Senza alcuna necessità di celebrazione, riconoscimento, ma solo un sincero e cosciente atto di responsabilità.
Molto, molto di più di un timido passo indietro.

O di uno avanti, quando non sai.
  
FranzK.

P.S.
Ai morti contro uno scoglio, e non solo.

mercoledì 18 gennaio 2012

Le persone.





Le persone sono l’insieme che chiamiamo il mondo.
Un intrigo di nature apparentemente uguali.
Solo apparentemente.
In realtà tutte differenti, ognuna il suo codice.
Ognuna la sua stringa speciale.
Problema e soluzione.
Tutto in uno, le persone.
Strana natura, fuori dalla Natura.
E siamo noi.
Tutti noi.
Con il nostro codice, la nostra stringa di programma speciale.
Nel tutti uguali, per diritti e doveri.
Tutti differenti, nessuno uguale, per dotazione genetica.
Per passioni, sentimenti, pensieri, progetti.

A volte, nel mio tempo, mi confondo.
Non mi raccapezzo più.
Eppure è giusto così.
È giusto lasciare ad ognuno la possibilità di essere nel suo “io”.
Non sono più sicuro che il meglio sia la condivisione.
Che fa delle persone un unico corpo.
Forse è meglio così.
Il caos non sempre è disordine.
Ma un ordine solo più complesso da capire.
Forse solo più giusto.
Forse per l’evoluzione della specie è la specie che decide.
E ha deciso così.

E temo di più, oggi, una possibile aggregazione che la disgregazione del “sè”.
Anch’io sono una persona.
Uguale, nel suo tempo a tutte le altre.
E forse ho sbagliato qualche tempo fa.
A pensare che la caste di tutte le caste fosse il potere economico, il denaro.
Forse devo ricredermi.
Forse la casta sopra ogni casta, del nostro tempo, siamo noi.
L’Io di tutti noi.
Per me, solo e soltanto per me.
Una delle frasi che sento più declamare, e vale anche per me:
“l’importante che stai bene tu, che trovi il tuo equilibrio”.
E io comunque non mi raccapezzo più.

Perché non vedo persone felici.
Forse dovrei uscire di più, incontrare di più.
Perché proprio di persone felici non ne vedo.
Non ne sento, non sento che profumo di bruciato.
Che non riguarda la crisi, le gravissime situazioni.
Ma le persone.
Io, tu, noi.
Isolate, sperdute nel mare della vita.
Con ognuna il suo motivo, per darsi un motivo che va tutto bene.
Con pochissime che hanno il coraggio di dichiarare il loro “male”.
Non fa trendy, nel grande luna-park della vita, dichiararsi infelici.
La giostra gira, non puoi essere triste.

Forse sono solo io fuori dalla “razza”.
Nato storto.
Eppure a volte accadono ancora belle favole.
Perché sono fatte di persone, non di personaggi le favole.
Ti capita di sentire profumi buoni.
Sentimenti veri, per la sola passione di viverli.
A volte capita ancora, per fortuna.
Di poter cogliere il semplice bagliore della semplicità.
E proprio oggi ne ho avuto la prova.
Che il bene per tutti che cerco da troppo, è più vero di quanto avessi mai sperato.
Grazie ad una persona tanto semplice quanto vera.
Tanto vera da fare cose vere, non promesse, non parole, non esperimenti.

E mi raccapezzo ancor meno.
Perché è meglio perdere la fiducia, che riaccenderla.
È meno rischioso essere tristi dimostrandosi felici che il contrario.
Però è accaduto.
Che una semplice persona oggi ha riacceso il fuoco della speranza.
Dando senza chiedere, per la sola passione, felicità del dare.
Che ha permesso anche a me un breve istante di felicità, un po' di energia.
Per andare avanti nel mio credere, nel mio agire volto al bene da lasciare, non da prendere.
Non preteso ma messo a disposizione.
Oggi, su per le ripide salite, mi sono stupito ancora una volta.
E solo lo stupore conosce davvero, è la vera conoscenza lo stupore, la scienza.
Quella da lasciare, a tutti, alle persone.

Forse perché quanto non c’è fondo al negativo, non ne esiste uno anche per il positivo.
Un istante di felicità vale dieci kilotoni di energia.
O anche solo un piccolo accendino.
Che è sufficiente ad accendere ancora una volta il pensiero positivo.
La speranza di una speranza.
Perché io amo le persone.
Anche quelle che non mi sopportano.
La mia natura le sente, le comprende, e non può che amarle.
Tutte.
Quelle vissute e quelle lontane, sconosciute.
Quelle che hanno dato, quelle che hanno solo tolto.
Perché ho dato e tolto anch’io, nel mio turno.
Non sono fuori dalla razza, nessuno lo è.
Nel solo “io” o nel solo “noi”.
Vorrei essere triste apparendo felice stasera.
Avrei voluto parlare del rating, o chissà di quale altro “interessante” argomento.
Ma proprio non mi riesce.
Stasera nel mio personale solo “Io” ho altri pensieri.
Stasera voglio provare ancora una volta.
A credere nelle persone.
Stasera contro ogni mio desiderio, volontà, sento che devo farlo ancora.

Devo solo amare.

FranzK.



P.S.
Un grazie a Massimo per quello che gratuitamente e con fiducia ha fatto per me.

Mi manchi.




Per sentirlo:




Mi manchi.
E non so se passerà.
Mi manchi davvero.
Mi manca la tua voce.
Parlarti.
Ascoltarti.
Per ore e ore.
Giorni e giorni.
Mi mancano i tuoi occhi.
Le tue mani.
Il profumo dei tuoi capelli.
Mi manca stare sveglio.
A guardarti.
Stupito.
Di quanto fossi bella per me.
Notti e notti.
Sveglio.
A tenderti la mano.
Che stringevi forte nel tuo sonno.
Mi manca il tuo rincantucciarti in me.
Verso mattina.
Cercare il contatto.
Di noi.
Mi manchi.
E non temo sapermelo dire.
Mi manca mangiare insieme.
Far spesa insieme.
Discutere anche quando non eravamo d’accordo.
Leggere insieme.
Studiare insieme.
Mi mancano le tue parole.
Il tuo strano accento.
Mi manca il tuo viso.
Allegro.
Triste.
Sofferto.
Arrabbiato.
Mi manca darti l’olio.
Ogni sera.
Mi manca addormentarmi sereno.
Senza mai finire un film.
Perché ero sereno.
Mi mancano i tuoi capricci.
Mi mancano le tue gioie.
Mi manca tenerti stretta.
Senza neppure poter applaudire.
Ad un concerto.
Guai a staccare la mia stretta.
Da te.
Mi mancano le tue partenze.
Rimandate.
Ripensate.
Mi manca il tuo profilo.
Da una parte e dall’altra.
Differente ma uguale.
Mi mancano le tue labbra.
Le tue raccomandazioni.
Continue, insistenti.
Mi manca la pulizia del viso.
Che dolore!
Mi manchi davvero.
Le nostre serate.
A cercare animali selvaggi.
Di notte.
Per le buie strade strette delle montagne.
Mi manca il tempo.
Che si fermava.
Nei momenti più belli.
Il tempo che perdeva senso.
I minuti in ore.
Mi manca tenerti per mano.
A portare pane ad animali infreddoliti.
Affamati.
Mi manca rotolarti nella neve.
Fotografarti di nascosto.
Mi manca fare il tuo albero.
Al quale di aggrappavi.
Mi manca il tuo “solo per me”.
Tutto solo per me.
Mi manca aspettarti fuori da scuola.
Nell’attesa di un tuo successo.
Di un tuo sorriso.
Abbraccio.


Mi manca tutto, e non posso evitarlo.
Proprio tutto.
Di te.

Francesco.